venerdì 13 giugno 2008

Lontano dal Tibet

Immagine di Lontano dal TibetCon gli amici di aNobii - ed in particolare l'impareggiabile gio', organizzatore della serata - abbiamo trascorso un piacevole dopocena (non privo di cibo e vino - grazie Marco!) alla libreria Massena28 (grazie Beppe! libreria splendida!) in cui alcuni di noi hanno brevemente presentato un libro che desideravano consigliare agli altri.
XIII ovverosia me ha parlato di Lontano dal Tibet di Carlo Buldrini (ed. Lindau, 2006); a seguire i suoi ovverosia miei appunti.

Ci sono molti motivi per cui la questione tibetana mi sta a cuore, e hanno principalmente a che vedere con la vicinanza emotiva che sento per quel popolo. Però c’è una ragione che ritengo dovrebbe rendere questa questione di interesse per tutti, ed è la tenacia con cui la principale autorità del Governo Tibetano in Esilio, Tenzin Gyatso, il XVI Dalai Lama, porta avanti una politica di non-violenza.
I governanti del mondo occidentale, coloro che occupano le posizioni di potere, dovrebbero chiedersi: cosa potrebbe significare mostrare al mondo che è possibile per un popolo vedere riconosciuta la propria identità etnica e culturale senza bisogno di costruire armi, dichiarare guerre o trovarsi dei nemici?

Il libro di Carlo Buldrini racconta molte cose e affronta molti temi. Ripropone gli eventi del 1959, quando la Cina invase il Tibet e il Dalai Lama allora ventunenne fuggì in India. E racconta molto del popolo tibetano di oggi, raccogliendo testimonianze e narrando episodi di lotta per la libertà. Ci porta a McLeod Ganji, dove ha sede il Governo in Esilio. E ci porta a Bylakuppe, nel Karnataka, dove sono stati ricostruiti i principali monasteri del Tibet. Intervista il Dalai Lama. Si reca in viaggio a Lhasa. E non trascura di mostrare gli aspetti talvolta contraddittori della lotta di un popolo per preservare la propria identità culturale, anche laddove questo significa rinunciare a combattere per essa.

I tibetani non sono un popolo da operetta, privi di emozioni distruttive e soffusi di santità. E il Tibet, prima dell’invasione, era un paese sostanzialmente feudale in cui il potere politico andava ampiamente a coincidere con quello spirituale. Buldrini è bravo a non trascurare questi aspetti, e anche a mostrare come la politica di non-violenza del Dalai Lama sia unita (e non meramente affiancata) ad una spinta verso la democratizzazione del governo e verso l’unità del popolo tibetano.
Da questo punto di vista sono particolarmente interessanti i due capitoli in cui si narra da una parte delle lotte politiche intestine per la scelta del XVII Karmapa (il leader spirituale della scuola Kagyüpa) e dall’altra dell’esistenza di fondamentalisti religiosi che si ritengono legittimamente parte della comunità buddhista tibetana, nonostante siano arrivati ad assassinare il Direttore dell’Istituto di Dialettica Buddhista, persona molto vicina al Dalai Lama. Il verificarsi di situazioni come quelle ivi descritte ha il potere di rendere ancora più degni di ammirazione gli sforzi per impedire che le condizioni difficili in cui versa il popolo tibetano ne facciano emergere i lati peggiori, minando definitivamente un’identità culturale che si fonda anche su valori quali il rispetto, la tolleranza e la comprensione.

Carlo Buldrini ha secondo me la capacità di mostrare quanto la politica di non violenza portata avanti dal Dalai Lama richieda un grande coraggio e una grande forza d’animo, perché si scontra con istinti comunque umani, perché a volte è incompresa a livelli quasi paradossali, e perché trova in determinate circostanze un’opposizione umanamente comprensibile.
Per “non violenza” non si intende solo il non prendere le armi contro i cinesi. Per “non violenza” si intende anche e soprattutto il non cedere alla rabbia, allo sconforto, alla disperazione, e il non agire sull’impulso di questi sentimenti.
A questo proposito è interessante il capitolo del libro in cui si racconta dello sciopero della fame ad oltranza (“fino alla morte”) organizzato a Nuova Delhi dal Tibetan Youth Congress in occasione della visita ufficiale in India del capo di stato maggiore dell’esercito della Repubblica Popolare Cinese. Tale manifestazione ebbe un tragico epilogo, perché culminò nell’atto estremo di un tibetano, Thupten Ngodup, che si diede fuoco davanti alla polizia che cercava di interrompere lo sciopero con la forza.
Vorrei però soffermarmi sulle parole dette dal Dalai Lama in seguito ad una visita agli scioperanti, prima della drammatica conclusione.

Agli scioperanti ho fatto sapere che ammiro molto la loro determinazione e il loro coraggio. Ma ho anche ricordato loro che considero lo sciopero della fame fino alla morte un atto di violenza. Sono contrario ad ogni forma di violenza, sia contro gli altri che contro se stessi. Purtroppo, in questa occasione, non sono in grado di suggerire un’altra forma di lotta. Posso solo dire che l’aver visto quei sei tibetani in sciopero della fame fino alla morte è stato come vedere la civiltà del Tibet morire sotto i miei occhi.

Il coraggio e la forza d’animo di cui parlavo sono nel saper ribadire con fermezza, pur in circostanze drammatiche, l’importanza della non-violenza. E nel manifestare verso chi agisce diversamente, per incapacità di vedere altre vie d’uscita, non giudizio morale, bensì compassione, intesa nel suo significato originario di “sentire insieme”. Non una divina compassione che scende dall’alto sui più deboli, ma la compassione umana di chi riconosce dinanzi a sé un suo simile che soffre (che se andiamo a ben vedere è l’unico tipo di compassione possibile).

Questo coraggio e questa forza d’animo non possono venire da un astratto principio etico (la violenza è brutta e cattiva e quindi va evitata). C’è un principio assai più pragmatico dietro tutto ciò: la ferma convinzione che ogni azione reca in sé le conseguenze dell’intenzione e dell’emozione che l’ha motivata, e che pertanto dalla rabbia e dall’odio nulla potrà germogliare di positivo per il popolo tibetano, né tanto meno per l’individuo che ha agito in preda a questi sentimenti. Non si tratta di invocare punizioni cosmiche, bensì di vedere con estrema chiarezza come le cose siano fra loro collegate, e ad ogni causa corrisponda un effetto corrispondente.
A questo proposito vorrei riportare alcuni estratti di un’intervista recente al Dalai Lama pubblicata su Geo (nr. 24, dicembre 2007, pp. 118-119).

[…] È possibile vivere oggi secondo gli ideali predicati dal Buddha?
Ciascun uomo possiede le condizioni di una vita felice. Il fatto che riesca o meno a raggiungere questo ideale dipende dal suo atteggiamento interiore. Che sia credente o meno, poco importa. Anche Hitler aveva in se stesso il potere di diventare un uomo felice, capace di compassione. Quando lo dico ai miei amici israeliani, alcuni non capiscono. Intendo dire che ciascun uomo ha in sé il potenziale di diventare buono e felice. La riuscita dipende da numerosi, svariati fattori. […]
Lei predica la non-violenza. Ma come convincere chi usa la violenza?
La violenza nasce sempre dall’ignoranza. Si crea quando gli uomini non riflettono sulle conseguenze delle proprie azioni. Un esempio estremo: lei uccide il suo avversario. Ha vinto, ma deve rispondere del suo gesto davanti a un tribunale. Anche lei quindi proverà della sofferenza. Pur avendo trionfato, subirà la conseguenza negativa del suo atto. Nei nostri presunti nemici si trova sempre una parte di noi stessi. Nuocere ai nostri nemici equivale a nuocere a noi stessi.
Ma spesso tramite la violenza si raggiunge più rapidamente il proprio obiettivo…
Le cose non stanno così. Sì, il vincitore ha eliminato il problema. Ma ne ha creato un altro. Se si offende una persona, la si può ferire in modo durevole. E da questa ferita che rimane aperta può germogliare una nuova difficoltà. Essere coscienti di questa concatenazione non è una questione di religione, ma di capacità di comprendere l’altro.[…]
Lei ha detto che il futuro Dalai Lama potrebbe nascere fuori dal Tibet e dalla Cina. E che potrebbe essere una donna…
Il prossimo Dalai Lama dovrà innanzitutto affrontare i compiti che non saranno stati risolti. Se muoio fuori dal Tibet, il prossimo Dalai Lama probabilmente non sarà trovato lì.
Ma in Cina come la prenderebbero, secondo lei?
Certamente i cinesi sceglieranno il loro Dalai Lama. Ciò creerà dei problemi, ma soprattutto a loro. […]

La non-violenza va cercata prima di tutto dentro se stessi. La pace deve risiedere nelle nostre menti e nei nostri cuori prima di potersi manifestare nel mondo. È per questa ragione che nessun tentativo di intervenire nel mondo dovrebbe essere disgiunto da un lavoro su sé stessi.

Immagine di Cabaret misticoMi rendo perfettamente conto che questo apologo della non-violenza può generare sentimenti contrastanti. Ci dovremmo trasformare in zerbini che subiscono qualsiasi cosa, in agnelli sacrificali? Personalmente penso di no, penso che il senso sia ben diverso. E a riguardo, mi limiterò a riportare una pertinente barzelletta da Cabaret Mistico di Alejandro Jodorowsky (ed. Feltrinelli, 2008) – la cui opinione sul tema trovo assai apprezzabile.

Un antisemita convinto s’imbatte in un ebreo.
“Porco immondo!” gli grida.
“Josef Goldenberg, piacere” risponde affabile l’ebreo.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

bello! ma soprattutto:

primooooooo

Unknown ha detto...

che dire, Claudia?

bravissima...
mi è piaciuto il tuo intervento...

Brunetto_64

Anonimo ha detto...

brava!! mi è piaciuta soprattutto l'espressione l'impareggiabile Giò!! ;) grazie e buon avvio di blog!
...gio'

Claudia ha detto...

Che emozione! Non pensavo che qualcuno mi avrebbe lasciato un commento, grazie ragazzi!!!

Spero prima o poi di scrivere qualcosa che riceva qualche critica cattiva, mi diverto a scatenare polemiche :P

Anonimo ha detto...

Evviva, finalmente è online!!
Mi unisco alle felicitazioni di amici e anobiani per il battesimo del blog! :-))
Marina (Anthurium)