giovedì 26 giugno 2008

Non ho

Non ho più voglia di proteggermi, non ricordo cosa sia da preservare né da cosa debba essere difeso - voglio essere casa e rifugio e non fortezza da espugnare.
Non ho più desiderio di cercare chi sono negli occhi degli altri, né conferme o rassicurazioni – sono così come mi vedi, non c’è altro – e ritrovo me e le mie certezze nell’assenza di definizioni e nell’equilibrio fra forze una volta nemiche.
Non ho bisogno di uno strumento per realizzare i miei progetti ma mi piace avere compagni di strada.
Non ho voglia di fare qualcuno mio, ma di vedere il suo passo e il percorso che sceglie anche se diverge da quello che sto seguendo.
Non ho la convinzione che le mie qualità e i miei sentimenti e la mia gioia e capacità di amare dipendano da chi mi sta accanto e anzi ho voglia di fargliene dono.
Non desidero che qualcuno si prenda cura di me, semmai sono io ad aver voglia di prendermi cura.
Non ho intenzione di togliere escludere separare e allontanare né per rabbia né per presunto amore delusione od orgoglio ferito.
Non ho nemmeno intenzione però di inseguire chi va via, questa energia limpida e chiara che scorre in me come in tutte le cose è troppo preziosa per sprecarla così.

Da nessuna parte io sono qualcosa di qualcuno, e da nessuna parte c'è qualcosa che sia mio.

Buddha

tratta da Alejandro Jodorowsky - Cabaret Mistico - pag 89.

Inizia tutto da qui

so why spend all our time in dressing our bandages
when we've the ultimate key to the cause right here our underneath


mercoledì 25 giugno 2008

Nubi

A volte le nubi sono l'unica cosa che permette di cogliere la profondità del cielo.

martedì 17 giugno 2008

L'invenzione della morte

L'arcano senza nomeUna caratteristica osservabile della mente umana è l’abitudine a scattare fotografie, per poi utilizzarle come materiale di lavoro.
Le esperienze e i fenomeni con cui entriamo in contatto vengono (a) catturati in una sequenza di pose, (b) catalogati e incasellati, o come si dice nell’era del Web2.0, ‘taggati’, (c) manipolati per estrarre strategie comportamentali, proiezioni sul futuro, etc.
Questo è il modo in cui – in larga parte – conosciamo la realtà, ed è anche lo strumento che ci permette di interagire operativamente con il mondo.
Tuttavia accade che gli esseri umani si convincano che questo utile schema interpretativo sia la realtà. Un insieme di cose solide, di natura permanente e immutabile. E una collezione di fotografie, vissute o immaginate, che chiamiamo passato e futuro.

Ed ecco il Grande Inganno, anche noto come il velo di Maya, l’Illusione.

La più rilevante conseguenza di tutto questo è l’invenzione della morte.
Nel continuo fluire della manifestazione percepibile, chi può dire dove è l’inizio e dove la fine? Queste parole assumono un senso solo in relazione ad una categoria mentale con cui identifichiamo un fenomeno. Nel continuo dispiegarsi della realtà, qualcosa entra nel campo di un’etichetta e quindi nasce, ne esce e quindi muore. Ma in realtà questo qualcosa non ha una sua solidità, non si crea e non si distrugge. L’unica cosa che succede è che l’affermazione “x appartiene a E” (dove x è il fenomeno, ed E l’etichetta) cambia valore di verità. Ma siccome la nostra mente non coglie x nel suo mutare, ma soltanto E, essa dice invece “E esiste”. Ed è l’esistenza di E che diventa vera (inizio) o falsa (fine).

Mi rendo conto che tutto questo può apparire un’astratta visione filosofica e dire che E non è morto, ma è solo x che ha smesso di essere E ed è diventato magari K, non ci consola dalla perdita di E. Ma il punto qui è se sia possibile non tanto convincersi di un modo diverso di guardare alle cose, quanto piuttosto rallentare la funzione di etichettatura compulsiva della nostra mente per lasciare il posto ad una percezione più diretta del manifesto, che lo colga nel suo fluire senza limitarsi a ragionarvi sopra.
La nostra mente vorrebbe possedere gli oggetti che le appaiono, fermarli per sempre. Ma questo sì che corrisponderebbe ad uccidere la realtà, che è viva grazie appunto al suo costante movimento. Non possiamo perdere E perché non l’abbiamo mai avuto. Quello che “abbiamo” è il nostro essere qui ed ora – ma siamo troppo presi ad interpretare e catalogare per vivere nel momento, che sfugge a qualunque tentativo di cattura.

Shinzen Young, insegnante di meditazione Vipassana, scrive a riguardo:

The impermanent nature of things can be looked upon from a pessimistic point of view or an optimistic point of view. Pessimistically, everything passes, so to pin your happiness on any person, object, or situation is to set yourself up to suffer sooner or later. […] Optimistically, impermanence is movement, and (as Newton pointed out) movement reflects an underlying force. By focusing on instantaneous rates of change in ordinary sensory experiences, we can come into direct contact with the underlying Force that molds them… Spirit.

Essere consapevole, momento per momento, del dispiegarsi impermanente e giocoso della realtà è l’unica cosa che mi fa sentire realmente viva e felice di esserlo – anche se purtroppo non sempre vi riesco. Il profumo del cambiamento mi emoziona piuttosto che spaventarmi, e so di essere a volte anche drastica nell’assecondare questa mia natura nomadica. Come uno straniero, non sento legami di sentimento… :)
Coltivo la speranza di riuscire a far percepire anche a chi mi è accanto la gioia e la magia e la curiosità che c’è nell’aprire la scatola dei giochi e trovarci sempre dentro qualcosa di diverso.
A volte so di esserci riuscita – c’è però anche chi si spaventa davanti al rischio di desiderare il cambiamento.
Il mio alter-ego, l’Arcano senza Nome, fa davvero paura? Non riesco a crederci, eppure…

Gift or curse I still wonder,
but my nature in movement lies.
I’m an acrobat on ever-changing ropes,
and talented at breaking ties.

I’m no good at snapshots,
freezing instants a killer of divine breath.
And past, well, it’s past and gone,
while future still isn’t born.

You’ve been walking alongside
and maybe you indeed met me.
I saw in your eyes possibilities flourishing,
but I also had to watch you flee

And I won’t try to stop you:
I can’t help but love the dance that takes you away.
Love your undirected energy
and the secret tunes you play.

venerdì 13 giugno 2008

Un ricordo di me

Barcellona, novembre 2007. Pochi giorni prima, l'incontro/scontro che avrebbe individuato le mie rotte dei mesi successivi [e portato purtroppo anche questa nuvola di pioggia che si è ora appoggiata in fondo al mio stomaco] e a causa del quale, per strane concatenazioni di eventi, mi trovo lì. Cammino sul lungomare. Cercando di ricordarmi di me.

passano in punta di piedi
e si dimenticano
quando il tempo dell’inverno ne copre le tracce
ma tornerà il sole lo riscoprirai
all’angolo di una strada
ti rincontrerai
e sarà come la prima volta e commosso
ti saluterai ridendo e saprai
che tutto intorno a te danza
nello spazio di un istante
nella polvere del marciapiede
e nella pioggia che piano
ricomincia a cadere

Lontano dal Tibet

Immagine di Lontano dal TibetCon gli amici di aNobii - ed in particolare l'impareggiabile gio', organizzatore della serata - abbiamo trascorso un piacevole dopocena (non privo di cibo e vino - grazie Marco!) alla libreria Massena28 (grazie Beppe! libreria splendida!) in cui alcuni di noi hanno brevemente presentato un libro che desideravano consigliare agli altri.
XIII ovverosia me ha parlato di Lontano dal Tibet di Carlo Buldrini (ed. Lindau, 2006); a seguire i suoi ovverosia miei appunti.

Ci sono molti motivi per cui la questione tibetana mi sta a cuore, e hanno principalmente a che vedere con la vicinanza emotiva che sento per quel popolo. Però c’è una ragione che ritengo dovrebbe rendere questa questione di interesse per tutti, ed è la tenacia con cui la principale autorità del Governo Tibetano in Esilio, Tenzin Gyatso, il XVI Dalai Lama, porta avanti una politica di non-violenza.
I governanti del mondo occidentale, coloro che occupano le posizioni di potere, dovrebbero chiedersi: cosa potrebbe significare mostrare al mondo che è possibile per un popolo vedere riconosciuta la propria identità etnica e culturale senza bisogno di costruire armi, dichiarare guerre o trovarsi dei nemici?

Il libro di Carlo Buldrini racconta molte cose e affronta molti temi. Ripropone gli eventi del 1959, quando la Cina invase il Tibet e il Dalai Lama allora ventunenne fuggì in India. E racconta molto del popolo tibetano di oggi, raccogliendo testimonianze e narrando episodi di lotta per la libertà. Ci porta a McLeod Ganji, dove ha sede il Governo in Esilio. E ci porta a Bylakuppe, nel Karnataka, dove sono stati ricostruiti i principali monasteri del Tibet. Intervista il Dalai Lama. Si reca in viaggio a Lhasa. E non trascura di mostrare gli aspetti talvolta contraddittori della lotta di un popolo per preservare la propria identità culturale, anche laddove questo significa rinunciare a combattere per essa.

I tibetani non sono un popolo da operetta, privi di emozioni distruttive e soffusi di santità. E il Tibet, prima dell’invasione, era un paese sostanzialmente feudale in cui il potere politico andava ampiamente a coincidere con quello spirituale. Buldrini è bravo a non trascurare questi aspetti, e anche a mostrare come la politica di non-violenza del Dalai Lama sia unita (e non meramente affiancata) ad una spinta verso la democratizzazione del governo e verso l’unità del popolo tibetano.
Da questo punto di vista sono particolarmente interessanti i due capitoli in cui si narra da una parte delle lotte politiche intestine per la scelta del XVII Karmapa (il leader spirituale della scuola Kagyüpa) e dall’altra dell’esistenza di fondamentalisti religiosi che si ritengono legittimamente parte della comunità buddhista tibetana, nonostante siano arrivati ad assassinare il Direttore dell’Istituto di Dialettica Buddhista, persona molto vicina al Dalai Lama. Il verificarsi di situazioni come quelle ivi descritte ha il potere di rendere ancora più degni di ammirazione gli sforzi per impedire che le condizioni difficili in cui versa il popolo tibetano ne facciano emergere i lati peggiori, minando definitivamente un’identità culturale che si fonda anche su valori quali il rispetto, la tolleranza e la comprensione.

Carlo Buldrini ha secondo me la capacità di mostrare quanto la politica di non violenza portata avanti dal Dalai Lama richieda un grande coraggio e una grande forza d’animo, perché si scontra con istinti comunque umani, perché a volte è incompresa a livelli quasi paradossali, e perché trova in determinate circostanze un’opposizione umanamente comprensibile.
Per “non violenza” non si intende solo il non prendere le armi contro i cinesi. Per “non violenza” si intende anche e soprattutto il non cedere alla rabbia, allo sconforto, alla disperazione, e il non agire sull’impulso di questi sentimenti.
A questo proposito è interessante il capitolo del libro in cui si racconta dello sciopero della fame ad oltranza (“fino alla morte”) organizzato a Nuova Delhi dal Tibetan Youth Congress in occasione della visita ufficiale in India del capo di stato maggiore dell’esercito della Repubblica Popolare Cinese. Tale manifestazione ebbe un tragico epilogo, perché culminò nell’atto estremo di un tibetano, Thupten Ngodup, che si diede fuoco davanti alla polizia che cercava di interrompere lo sciopero con la forza.
Vorrei però soffermarmi sulle parole dette dal Dalai Lama in seguito ad una visita agli scioperanti, prima della drammatica conclusione.

Agli scioperanti ho fatto sapere che ammiro molto la loro determinazione e il loro coraggio. Ma ho anche ricordato loro che considero lo sciopero della fame fino alla morte un atto di violenza. Sono contrario ad ogni forma di violenza, sia contro gli altri che contro se stessi. Purtroppo, in questa occasione, non sono in grado di suggerire un’altra forma di lotta. Posso solo dire che l’aver visto quei sei tibetani in sciopero della fame fino alla morte è stato come vedere la civiltà del Tibet morire sotto i miei occhi.

Il coraggio e la forza d’animo di cui parlavo sono nel saper ribadire con fermezza, pur in circostanze drammatiche, l’importanza della non-violenza. E nel manifestare verso chi agisce diversamente, per incapacità di vedere altre vie d’uscita, non giudizio morale, bensì compassione, intesa nel suo significato originario di “sentire insieme”. Non una divina compassione che scende dall’alto sui più deboli, ma la compassione umana di chi riconosce dinanzi a sé un suo simile che soffre (che se andiamo a ben vedere è l’unico tipo di compassione possibile).

Questo coraggio e questa forza d’animo non possono venire da un astratto principio etico (la violenza è brutta e cattiva e quindi va evitata). C’è un principio assai più pragmatico dietro tutto ciò: la ferma convinzione che ogni azione reca in sé le conseguenze dell’intenzione e dell’emozione che l’ha motivata, e che pertanto dalla rabbia e dall’odio nulla potrà germogliare di positivo per il popolo tibetano, né tanto meno per l’individuo che ha agito in preda a questi sentimenti. Non si tratta di invocare punizioni cosmiche, bensì di vedere con estrema chiarezza come le cose siano fra loro collegate, e ad ogni causa corrisponda un effetto corrispondente.
A questo proposito vorrei riportare alcuni estratti di un’intervista recente al Dalai Lama pubblicata su Geo (nr. 24, dicembre 2007, pp. 118-119).

[…] È possibile vivere oggi secondo gli ideali predicati dal Buddha?
Ciascun uomo possiede le condizioni di una vita felice. Il fatto che riesca o meno a raggiungere questo ideale dipende dal suo atteggiamento interiore. Che sia credente o meno, poco importa. Anche Hitler aveva in se stesso il potere di diventare un uomo felice, capace di compassione. Quando lo dico ai miei amici israeliani, alcuni non capiscono. Intendo dire che ciascun uomo ha in sé il potenziale di diventare buono e felice. La riuscita dipende da numerosi, svariati fattori. […]
Lei predica la non-violenza. Ma come convincere chi usa la violenza?
La violenza nasce sempre dall’ignoranza. Si crea quando gli uomini non riflettono sulle conseguenze delle proprie azioni. Un esempio estremo: lei uccide il suo avversario. Ha vinto, ma deve rispondere del suo gesto davanti a un tribunale. Anche lei quindi proverà della sofferenza. Pur avendo trionfato, subirà la conseguenza negativa del suo atto. Nei nostri presunti nemici si trova sempre una parte di noi stessi. Nuocere ai nostri nemici equivale a nuocere a noi stessi.
Ma spesso tramite la violenza si raggiunge più rapidamente il proprio obiettivo…
Le cose non stanno così. Sì, il vincitore ha eliminato il problema. Ma ne ha creato un altro. Se si offende una persona, la si può ferire in modo durevole. E da questa ferita che rimane aperta può germogliare una nuova difficoltà. Essere coscienti di questa concatenazione non è una questione di religione, ma di capacità di comprendere l’altro.[…]
Lei ha detto che il futuro Dalai Lama potrebbe nascere fuori dal Tibet e dalla Cina. E che potrebbe essere una donna…
Il prossimo Dalai Lama dovrà innanzitutto affrontare i compiti che non saranno stati risolti. Se muoio fuori dal Tibet, il prossimo Dalai Lama probabilmente non sarà trovato lì.
Ma in Cina come la prenderebbero, secondo lei?
Certamente i cinesi sceglieranno il loro Dalai Lama. Ciò creerà dei problemi, ma soprattutto a loro. […]

La non-violenza va cercata prima di tutto dentro se stessi. La pace deve risiedere nelle nostre menti e nei nostri cuori prima di potersi manifestare nel mondo. È per questa ragione che nessun tentativo di intervenire nel mondo dovrebbe essere disgiunto da un lavoro su sé stessi.

Immagine di Cabaret misticoMi rendo perfettamente conto che questo apologo della non-violenza può generare sentimenti contrastanti. Ci dovremmo trasformare in zerbini che subiscono qualsiasi cosa, in agnelli sacrificali? Personalmente penso di no, penso che il senso sia ben diverso. E a riguardo, mi limiterò a riportare una pertinente barzelletta da Cabaret Mistico di Alejandro Jodorowsky (ed. Feltrinelli, 2008) – la cui opinione sul tema trovo assai apprezzabile.

Un antisemita convinto s’imbatte in un ebreo.
“Porco immondo!” gli grida.
“Josef Goldenberg, piacere” risponde affabile l’ebreo.